IL TRIBUNALE
    Letti gli atti e le deduzioni delle parti,  a  scioglimento  della
 riserva che precede, ha emesso la seguente ordinanza.
    Con ricorso depositato il 18 novembre 1988, Pinna Angela conveniva
 dinanzi  al  pretore del lavoro di Sassari la ditta E. Cesaraccio del
 dott. Gavino  Cesaraccio  e,  premesso  di  aver  lavorato  alle  sue
 dipendenze  dal  1$  gennaio 1956 come impiegata di secondo livello e
 che  con raccomandata del 10 novembre 1987, ricevuta dal destinatario
 il giorno successivo, aveva tempestivamente comunicato al  datore  di
 lavoro  la  sua  volonta'  di avvalersi del diritto di opzione per la
 durata di cinque anni ai sensi dell'art.  6  del  d.l.  22  dicembre
 1981, n. 791, convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, al fine di
 raggiungere   l'anzianita'   contributiva   massima,  lamentava  che,
 nonostante cio', con lettera del 9 maggio 1988 veniva licenziata  con
 preavviso.
    Impugnava  pertanto  il  provvedimento espulsivo, chiedendo che il
 Pretore adito ne dichiarasse l'illegittimita' previo accertamento del
 valido esercizio, da parte sua, della  facolta'  di  opzione,  e  che
 ordinasse alla ditta convenuta il ripristino del rapporto di lavoro o
 in  subordine adottasse i provvedimenti di cui all'art. 8 della legge
 15 luglio 1966, n. 604.
    In corso di causa  chiedeva,  con  esito  sfavorevole,  di  essere
 autorizzata  a  modificare  le  conclusioni  nel  senso  di  chiedere
 l'applicabilita' dell'art. 18 della legge n. 300/1970.
    Il contenuto si costituiva eccependo, ai fini che in  questa  sede
 interessano,  di  aver  agito nell'ambito della libera recedibilita',
 occupando meno di quindici dipendenti  e  chiedendo  il  rigetto  del
 ricorso.
    Il  pretore  con la sentenza impugnata dinanzi a questo tribunale,
 dopo  aver  accertato  il  legittimo  esercizio,   da   parte   della
 lavoratrice,  del  diritto  di  opzione,  ha peraltro ritenuto che la
 disposizione applicata prevedesse soltanto  la  tutela  obbligatoria,
 escludendo, in ogni caso, anche la tutela reale.
    Il  primo  giudice,  infatti, pur condividendo le considerazioni e
 motivazioni della sentenza della  Corte  di  cassazione  23  novembre
 1990,  n.  11311,  che  aveva esteso con dovizia di argomentazioni di
 carattere letterale e logico la tutela reale  prevista  dall'art.  18
 della  legge  n.  300/1970  alla  ipotesi  di  lavoratrice, che aveva
 esercitato il diritto di opzione ai sensi dell'art. 4 della legge  n.
 903/1977,  a  prescindere dal numero dei dipendenti dell'impresa, non
 ne accoglieva le coerenti conclusioni, affermando che mentre l'art. 4
 della legge n. 903/1977 dispone all'ultimo comma che, nell'ipotesi di
 continuazione da parte della donna di attivita'  lavorativa  fino  al
 limite  di  eta'  previsto  per  gli  uomini, trovano applicazione le
 disposizioni della legge n.    604/1966  e  successive  modifiche  ed
 integrazioni  (leggasi  art.  18  della  legge n. 300/1970) in deroga
 all'art. 11 della legge n.  604/1966, analogamente non dispone l'art.
 6 del d.l. 791/1981, il quale, pur essendo intervenuto dopo la legge
 n. 903/1977, non fa alcun riferimento alle  successive  modifiche  ed
 integrazioni  della  legge n. 604/1966, tra le quali, appunto, l'art.
 18 della legge n.  300/1970.
    Il pretore, pertanto, ne ha dedotto che nel silenzio della norma e
 nel raffronto fra le due disposizioni (art. 4 della legge n. 903/1977
 ed art. 6 del d.l. n. 791/1981) il citato  art.  6  non  estende  ai
 lavoratori  che  abbiano  esercitato la facolta' di opzione la tutela
 reale di cui all'art. 18 della legge n. 300/1970.
    Tale interpretazione, che si attiene  rigorosamente  alla  dizione
 letterale   della   norma   che   ci   interessa,  ha  fatto  sorgere
 nell'appellante il sospetto di  illegittimita'  costituzionale  della
 stessa  nella  parte in cui non prevede l'applicabilita' della tutela
 reintegratoria,   omissione   che  vanifica  la  stessa  ratio  della
 disposizione,  visto  che  per   maturare   la   massima   anzianita'
 contributiva  e'  necessaria la concreta prosecuzione del rapporto di
 lavoro.
    Questo collegio ritiene la questione non manifestamente  infondata
 e  la  rimette  al  giudice  delle leggi al fine di sottoporla, nella
 parte  in  cui  il  legislatore  ha  omesso  ogni  riferimento   alle
 modificazioni  ed  integrazioni della legge n. 604/1966, al vaglio di
 costituzionalita'.
    Cio' in quanto:
      1) premesso che la  finalita'  della  norma  e'  quella  di  far
 raggiungere  attraverso  la prosecuzione dell'attivita' lavorativa la
 massima  anzianita'  contributiva  al  lavoratore  che   abbia   gia'
 raggiunto   l'eta'   pensionabile,   e   premesso   pertanto  che  la
 disposizione configura una speciale tutela in favore della situazione
 soggettiva del lavoratore e che per tale finalita' appare  del  tutto
 irrilevante  la  dimensione dell'impresa presso la quale e' occupato,
 si ritiene che l'omessa previsione della tutela reale  configuri  una
 palese  violazione dell'art. 3 della Costituzione sia nel caso in cui
 la disposizione de quo sia interpretata nel modo piu'  letterale  (v.
 pretore del lavoro di Sassari nella sentenza impugnata), escludendosi
 comunque,   anche   per   le  imprese  che  ne  abbiano  i  requisiti
 dimensionali, la possibilita' di emettere l'ordine di  reintegrazione
 nel  posto  di lavoro; sia nel caso in cui, in osservanza del sistema
 sanzionatorio generale, la norma venga interpretata  subordinando  le
 conseguenze   di   un  eventuale  licenziamento  intimato  nella  sua
 violazione, al numero dei lavoratori occupati nell'impresa.
    Nella  prima  interpretazione,  la  irragionevole  disparita'   di
 trattamento  si  profila  nella  concreta  inattuabilita' della legge
 stessa, visto  che  il  raggiungimento  dell'anzianita'  contributiva
 massima  sara'  rimesso  all'orientamento  contingente  del datore di
 lavoro e si potranno pertanto verificare  situazioni  in  cui  alcuni
 dipendenti,  proseguendo  il rapporto di lavoro potranno godere di un
 maggiore cespite da pensione, mentre altri, soggetti all'applicazione
 del medesimo C.C.N.L., con le stesse mansioni e la stessa anzianita',
 essendo stati licenziati dovranno  accontentarsi  di  un  complessivo
 indennizzo   economico,  certamente  non  compensativo  del  maggiore
 cespite pensionistico in ipotesi realizzabile.
    Anche con la seconda interpretazione prospettata, il principio  di
 uguaglianza  appare compromesso, giacche' la condizione previdenziale
 di ogni lavoratore e quindi il raggiungimento attraverso  la  propria
 attivita'  di una maggiore serenita' economica in vecchiaia, verrebbe
 a dipendere a parita' di mansioni e di retribuzione, dalle dimensioni
 occupazionali dell'impresa.
    Sotto tali aspetti, gia' velatamente segnalati dalla  sentenza  23
 novembre  1990,  n.  11311,  della  Corte di cassazione, la questione
 sollevata appare non manifestamente infondata e, poiche' il  giudizio
 in  corso  non  puo'  essere  definito  indipendentemente  dalla  sua
 soluzione, se ne dispone la  sospensione  rimettendo  gli  atti  alla
 Corte costituzionale.